Da sempre osteggiati dalle popolazioni e da alcuni partiti politici, i termovalorizzatori fanno paura, perché? Abbiamo visitato l’impianto di Torino.
Seguiamo il viaggio di un rifiuto non differenziato. Esso raggiunge il termovalorizzatore del Gerbido a Torino attraverso dei camion dei rifiuti che, dopo aver superato opportuni controlli circa la radioattività ed essere stati pesati, riversano in un’avanfossa il loro carico. Qui, attraverso delle opportune benne, i rifiuti sono prelevati e convogliati in un forno a griglia mobile per circa un’ora dove bruciano alla temperatura di circa 1000°C. I fumi, generati dal processo di combustione, vengono indirizzati verso degli scambiatori di calore che vaporizzano l’acqua trasformandola in vapore acqueo. Esso andrà ad alimentare una turbina che, erogando circa 350.000 MWh all’anno, contribuirà all’illuminazione di 175.000 famiglie. Nel 2016, una parte del vapore che passa attraverso la turbina, fornirà attraverso il teleriscaldamento, acqua calda a 17.000 famiglie, mandando in pensione migliaia di caldaie obsolete e inquinanti.
I fumi, prima di essere emessi nell’ambiente attraverso un camino alto 120 metri, vengono opportunamente trattati in modo da eliminare, mediante quattro diversi filtri posti in successione, la pressoché totalità di elementi inquinanti come diossine, metalli pesanti, acidi e ossidi di azoto. Le concentrazioni di alcuni inquinanti sono monitorate costantemente da una sala controllo interna all’impianto (e i valori sono anche consultabili qui), mentre per analisi più specifiche vengono condotti dei rilevamenti periodici da ARPA: questo per garantire la massima trasparenza.
La componente non combusta, circa 1/4 in peso di tutto il rifiuto in ingresso nell’impianto, può essere impiegata come materiale da costruzione. I residui derivanti invece dai sistemi di filtraggio dei fumi, dal momento che contengono sostanze inquinanti, sono trattati come rifiuti speciali e quindi vengono stoccati in specifici impianti autorizzati: si tratta tuttavia di una percentuale inferiore al 2% in peso dei rifiuti iniziali.
Le domande alle quali vogliamo rispondere in questo articolo sono due: un termovalorizzatore ha un ruolo strategico nella gestione dei rifiuti? Un termovalorizzatore ha un impatto negativo sulla salute umana?
La risposta al primo quesito è affermativa. In effetti, le direttive comunitarie impongono agli stati membri di evitare il conferimento dei rifiuti in discarica, queste sì delle vere bombe ecologiche. Qui, la componente biodegradabile del rifiuto, viene trasformata in anidride carbonica, metano e percolato da microrganismi, con pesanti conseguenze ambientali (aumento gas serra, contaminazione falde sotterranee…). Dal punto di vista dell’impatto ambientale quindi, come sottolineato da uno studio pubblicato su Resources Conservation and recycling e relativo alla città di San Paolo (Brasile), il conferimento dei rifiuti in discarica rappresenta la soluzione peggiore.
In Europa la valorizzazione energetica dei rifiuti è stata già ampiamente adottata. La Svezia, per esempio, conferisce in discarica meno dell’1% dei rifiuti prodotti a fronte di una termovalorizzazione che arriva fino al 40%. In Italia, questo approccio viene sfruttato per meno del 20% dell’immondizia generata, mentre più del 40% dei rifiuti viene ancora stoccato in discariche contribuendo alla creazione di continue emergenze ambientali.
Un termovalorizzatore rappresenta un rischio per la salute? Una delle maggiori preoccupazioni è relativa all’emissione nell’ambiente di diossine, tra le quali, la tetraclorodibenzodiossina (TCDD), una molecola estremamente pericolosa e tristemente balzata agli onori della cronaca in occasione del disastro di Seveso. La TCDD in un impianto di termovalorizzazione si genera principalmente in seguito alla combustione di materie plastiche. Le diossine si formano prevalentemente a temperature comprese tra i 300-400°C; l’impianto del Gerbido, bruciando i rifiuti a temperature di circa 1000°C, riduce quindi già in partenza la quantità di diossine che possono essere effettivamente emesse.
In virtù delle proprietà chimico-fisiche di queste molecole, esse tendono ad accumularsi nei grassi degli animali: uno dei migliori strumenti per valutare un suo eventuale accumulo negli organismi è quindi quello di analizzare il grasso animale per eccellenza, il latte. A tale scopo riportiamo i risultati di uno studio effettuato in prossimità di un impianto spagnolo , il quale termina con una frase che non lascia spazio ad interpretazioni: “Una valutazione complessiva dei dati disponibili, mostra un’assenza di contaminazione di diossine e di furani derivanti dall’impianto di incenerimento nella sua area di diretta influenza” (“an exhaustive evaluation of the present data shows an absence of notable PCDD/F contamination by the HWI in the area under its direct influence”).
Una ricerca condotta sulla totalità degli impianti di termovalorizzazione ed incenerimento dei rifiuti in Francia ha messo in evidenza un fortissimo calo nell’emissione di diossine dal 1997 al 2007 mostrando quindi come, grazie ad impressionanti progressi ingegneristici, si siano raggiunti standard qualitativi estremamente importanti. Attualmente, la maggiore sorgente di diossine risulta la combustione di legna: un semplice barbecue, ad esempio, può favorire l’emissione di diossine in concentrazioni fino a 7 volte maggiori di quelle liberate in atmosfera da un moderno termovalorizzatore.
Esistono tuttavia degli studi condotti da N. Floret e J.F. Viel che hanno messo in evidenza una possibile correlazione tra certe forme di tumori e prossimità ad impianti di incenerimento. In entrambi i casi però, si sottolinea come i risultati, ottenuti studiando un periodo temporale compreso tra il 1990 ed il 1999, non possano essere utilizzati per effettuare delle estrapolazioni relativamente agli impianti più moderni i quali emettono fino a 400 volte meno diossina rispetto a quelli presi in considerazione nei lavori citati (“However, the findings of this study cannot be extrapolated to current incinerators, which emit lower amounts of pollutants“), tant’è che anche il più recente lavoro pubblicato da Viel si riferisce alle elevate emissioni di diossine registrate nel 1997, prima cioè che venissero introdotte le più stringenti regolamentazioni attuali.
Concludendo: un termovalorizzatore è pericoloso? Grazie ai continui progressi tecnologici, questi impianti industriali, autentici gioielli ingegneristici, non sono dannosi per la salute umana e tale innocuità è avallata anche da numerosi studi disponibili in letteratura. Una gestione integrata dei rifiuti che preveda quindi un ricorso sia alla raccolta differenziata sia alla valorizzazione energetica degli stessi permetterebbe di superare le criticità ambientali rappresentate dalle discariche ed eliminerebbe le pericolose ed inquinanti caldaie condominiali. Una strategia che però necessità di ampie e consapevoli visioni politiche, che non si facciano influenzare da un’opinione pubblica purtroppo poco informata o semplicemente informata male.
Nota: vista la complessità del tema, ritorneremo in futuro sul tema dei rifiuti con approfondimenti legati all’impatto ambientale di questi impianti, ai meccanismi di formazione (e rimozione) di diossine e altri inquinanti ecc…
Colgo l’occasione per ringraziare il personale TRM che ha accompagnato un gruppo di studenti del Corso di Laurea di Chimica dell’Ambiente di Torino nell’impianto.
Le visite guidate sono gratuitamente prenotabili a questo indirizzo.
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