La pioggia invernale alle Isole Svalbard, l’ondata di calore estiva in Siberia, la continua deforestazione in Amazzonia e, molto probabilmente un anno, il 2020, tra i più caldi mai registrati. Questa è l’immagine con la quale il Pianeta si presenta cinque anni dall’accordo di Parigi sul clima (COP21), la conferenza che raggiunse un risultato storico ovvero l’approvazione di un accordo che limitasse l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto al periodo pre-industriale. Da quel giorno, la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera ha continuato ad aumentare toccando il record di 52.4 GtCO2e (gigatonnellate di anidride carbonica equivalente) nel 2019, con un tasso di crescita annuo dell’1.3% negli ultimi 10 anni. Il 2020, a causa dell’attuale crisi pandemica, vedrà le emissioni contrarsi del 7% rispetto al 2019, da imputarsi principalmente alla riduzione della mobilità di superficie. Si tratta però di una riduzione episodica e marginale: il suo contributo infatti, considerando gli obiettivi previsti per il 2030 sarà di appena 2-4 GtCO2e, contro una riduzione necessaria, rispetto al 2019, di almeno 12.4 GtCO2e (per centrare l’obiettivo dei 2°C). In termini di riduzione della temperatura, la diminuzione delle emissioni legata alla pandemia sarà di appena 0.01°C al 2050. La pandemia, però, e la ripresa economica che seguirà, potrebbe rappresentare l’opportunità per un rilancio delle politiche di decarbonizzazione che, se adottate, contribuirebbero ad una riduzione del 25% delle emissioni di gas serra entro il 2030, rispetto ad uno scenario che non ne preveda l’implementazione. Abbiamo tra le mani una grande occasione, quindi, ma la domanda è: l’accordo di Parigi è servito o è stato l’ennesimo buco nell’acqua? Abbiamo finalmente imboccato la strada giusta per risolvere la più grande crisi che l’umanità abbia mai dovuto affrontare?
Per rispondere a queste domande occorre innanzitutto capire quanto margine abbiamo, quanta anidride carbonica possiamo ancora emettere in atmosfera prima che sia troppo tardi. Questo valore viene definito “carbon budget” e rappresenta uno strumento molto potente per chiarire quali sono i nostri margini di manovra. Il “carbon budget”, il credito di CO2 che possiamo ancora emettere in atmosfera, si esaurirà tanto rapidamente tanto più velocemente aumenteranno le nostre emissioni. Al ritmo attuale, esso si esaurirà in 7 anni (per lo scenario di 1.5°C) e in 24 anni (per lo scenario a 2°C). Se il credito sarà interamente consumato, non avremo più alcuna possibilità di mantenere il riscaldamento globale entro un livello considerato “accettabile”, quello dei 2°C appunto, con impatti catastrofici per la nostra società e l’ambiente. Possiamo pensare al “carbon budget” come la nostra riserva di denaro in banca. Se non lavoriamo, possiamo vivere di rendita prelevando dalla banca il denaro che abbiamo a disposizione, ma tanto più ne preleviamo, tanto più in fretta questo terminerà. In quest’ultimo caso, non solo non avremmo più i soldi per sopravvivere, ma costringeremmo i nostri figli a lavorare per ripagare i nostri debiti, condannandoli ad una vita di stenti. Però, quello che possiamo fare, è ridurre la quantità di denaro che preleviamo e, magari, anche lavorare per compensare quello che abbiamo prelevato. In termini climatici, questo si traduce in una riduzione delle emissioni di gas serra ed una loro compensazione, ad esempio attraverso tecniche di cattura di CO2.
A 5 anni da Parigi, stiamo quindi continuando a vivere sopra le nostre possibilità o abbiamo iniziato ad adottare delle politiche in grado di rallentare l’erosione del “carbon budget”? In altre parole: stiamo emettendo meno anidride carbonica? La risposta secca sarebbe no, ma dietro a questo no ci sono diverse sfaccettature. Perché se è vero che molti paesi in via di sviluppo stanno aumentando le loro emissioni, i Paesi più sviluppati (in primis l’Europa) stanno adottando politiche di riduzione significative delle proprie emissioni. Il nostro continente, che, da solo è il responsabile del 9% delle emissioni globali di anidride carbonica, si era proposto di arrivare al 2020 riducendo del 20% le proprie emissioni rispetto al 1990. Ebbene, non solo ce l’abbiamo fatta, ma abbiamo raggiunto l’obiettivo con due anni di anticipo (nel 2018 le emissioni si erano contratte del 23.2% rispetto al 1990). Inoltre, sembra che anche l’obiettivo di una riduzione delle emissioni del 40% entro il 2040 sia facilmente raggiungibile tant’è che il Green New Deal europeo ha fissato obiettivi più ambiziosi con un -55% entro il 2030 ed emissioni zero entro il 2050.
Anche la Cina (prima emettitrice di gas serra a livello globale con un 28%) ha recentemente fissato i propri obiettivi che prevedono il raggiungimento di un picco di emissioni al 2030, seguito da una rapida decrescita fino ad un netto zero al 2060. Un percorso che ha già mostrato i primi segnali, dal momento che il tasso di crescita delle emissioni si è significativamente ridotto negli ultimi 5 anni, rispetto al periodo 2010-2015. Generalizzando, sono 126 i Paesi, responsabili per il 51% delle emissioni di gas serra, ad aver adottato, annunciato o preso in considerazione, gli obiettivi di emissioni zero antro il 2050-2060. Qualora anche gli Stati Uniti, come sembra, decidano di fissare gli obiettivi per una neutralità climatica entro il 2050, i Paesi che raggiungerebbero emissioni zero entro la metà di questo secolo sarebbero quelli ad oggi responsabili del 63% delle emissioni globali. Tuttavia, soltanto il Regno Unito e la Nuova Zelanda hanno ufficialmente formalizzato i propri obiettivi, mentre tutti gli altri Paesi devono ancora implementare azioni concrete per la realizzazione dei loro proclami tant’è che ad oggi nessun Paese, ad esclusione di quelli citati, ha ufficialmente aggiornato i propri piani di riduzione delle emissioni. In altre parole possiamo dire che se è stato fissato il traguardo e si sia corretta la rotta, manca ancora la definizione di un percorso che possa portarci a destinazione.
Per questo motivo, allo stato attuale delle cose, le emissioni entro il 2030 saranno drammaticamente più alte di quelle necessarie per raggiungere l’obiettivo dei 1.5°C o dei 2°C e la direzione, in termini di aumento della temperatura, sarebbe orientata tra i 2.7°C ed i 3.1°C entro il 2100. C’è urgenza di agire ora, senza più aspettare. In effetti, tanto più lentamente si agisce, tanto più il processo di decarbonizzazione dell’economia risulterebbe difficoltoso. Se, infatti, avessimo iniziato nel 2010 a ridurre globalmente le nostre emissioni, sarebbe stato “sufficiente” un -3.3% su base annua per arrivare alle 25GtCO2e necessarie entro il 2030 per raggiungere l’obiettivo di Parigi (+1.5°C). Un ritardo di 10 anni, ci richiede oggi di raddoppiare i nostri sforzi (-7.6%/anno), mentre un ulteriore ritardo di 5 anni renderebbe praticamente irrealizzabile il raggiungimento degli obiettivi (-15.4%/anno). È quindi chiaro che ogni anno di ritardo ci espone ad un rischio sempre maggiore di fallimento. Per questo accelerare l’implementazione di politiche che mirino a ridurre la nostra dipendenza dai combusibili fossili è urgente. Per raggiungere gli obiettivi dichiarati, infatti, saranno necessari azioni concrete che mirino a ridurre le emissioni già nei prossimi 5 anni.
Per concludere: il trattato di Parigi è servito? Abbiamo visto come di lavoro da fare ce ne sia ancora molto. In particolare, manca una chiara definizione di quelle che saranno le strategie per poter arrivare agli obiettivi di emissioni nette zero. Sono stati fatti molti proclami, ma al momento la concentrazione di gas serra in atmosfera, dopo il crollo del 2019 legato alla pandemia, è destinata ad aumentare ulteriormente. La buona notizia però è che la strada verso una società a zero emissioni è stata imboccata in maniera irreversibile e questo proprio grazie all’accordo di cinque anni fa. Se, infatti, le stime di riscaldamento effettuate nel 2015, che tenevano conto delle strategie climatiche di allora, prevedevano un aumento delle temperature di 3.6°C entro la fine del secolo, quelle effettuate a cinque anni di distanza ci indicano un percorso orientato verso i 2.9°C (-0.7°C) grazie al raggiungimento di obiettivi più ambiziosi rispetto ai precedenti, alla crescita e alla competitività delle delle energie rinnovabili. Inoltre, come abbiamo visto, dall’accordo di Parigi, sono ormai 126 (più gli USA) i Paesi ad aver proclamato di voler raggiungere emissioni entro la metà di questo. L’implementazione concreta di questi obiettivi attraverso la definizione di un percorso credibile e attuabile potrebbe portare, con un 66% di possibilità di successo, al raggiungimento di un riscaldamento non superiore ai 2.3°C.
C’è quindi speranza. I prossimi 5-10 anni saranno decisivi per il nostro futuro. Un futuro che passa inevitabilmente anche dalle nostre scelte individuali. Esse, mai come in questo periodo storico, hanno un peso rilevante. In effetti, la lotta al cambiamento climatico è anche una lotta contro le diseguaglianze. L’1% della popolazione più ricca del Pianeta pesa più del doppio in termini di emissioni rispetto al 50% più povero. Per raggiungere gli obiettivi emissivi, ognuno di noi dovrà cambiare il proprio stile di vita: i più ricchi dovranno diminuire le proprie emissioni di 30 volte fino a raggiungere un livello emissivo/annuo di 2.1 tCO2e/persona. Per fare questo occorrerà adottare scelte sostenibili e di grande impatto come per esempio preferire viaggi in treno per tratte di corto raggio rispetto ai viaggi aerei, preferire il car-sharing e la bicicletta all’auto privata, potenziare il lavoro da casa, ridurre lo spreco alimentare e limitare il proprio consumo di carne. Si tratta di scelte che possono fare la differenza per il clima e azzerare le differenze tra gli esseri umani. Per noi, per il nostro futuro e per il futuro dei nostri figli.
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